Voce: Francesca Biagi, Ufficio Turistico Comune Sasso Marconi Allevamento di colombi o luogo di sepoltura di epoca romana? Una profonda cavità con due grandi aperture verso l’esterno e tante piccole nicchie scavate dall’uomo. Così si presenta il colombaio di Monte del Frate, che si affaccia sul fiume setta, visibile dalla strada che da Badolo conduce a Brento. Pur mancando reperti e documentazioni storiche che consentano una datazione precisa, alcuni studiosi hanno attribuito a queste piccole celle un significato legato all’architettura funeraria dell’Antica Roma, con numerosi esempi simili soprattutto in Lazio e in Toscana. Queste strutture, con nicchie allineate su più file parallele, potevano essere utilizzate dai Romani come luogo di sepoltura per defunti cremati. Non avendo però testimonianze ad avallare questa tesi, un’altra ipotesi, meno suggestiva, è che il colombario fosse una struttura adibita all’allevamento dei colombi.
Voce: Francesca Biagi, Ufficio Turistico Comune Sasso Marconi Un parco ispirato al passato e proiettato nel futuro: i giochi sono basati sugli esperimenti marconiani per imparare a divertirsi con le illusioni ottiche, la propagazione dei suoni, la deformazione delle immagini. Il genio di Guglielmo Marconi è celebrato sia nel percorso diagonale che collega il Parco alla scultura “Dialogo” (donazione di Francesco Martani), sia nelle tre piccole piazzette circolari che rimandano ai tre punti della lettera “s” del codice Morse. Il “Mondo Marconiano”, una pedana calpestabile di 6 x 4 m., contiene una raffigurazione della Terra ed evidenzia i luoghi scelti da Marconi per i suoi esperimenti più significativi.
Voce: Francesca Biagi, Ufficio Turistico Comune Sasso Marconi Il ponte di Vizzano nacque grazie alla petizione di una maestra per far sì che i suoi alunni potessero raggiungere le scuole attraversando il Reno anche con condizioni climatiche avverse. I lavori per la costruzione del ponte iniziarono nel 1926. Prima di allora il passaggio da una sponda all’altra del fiume era possibile grazie all’opera dei “passatori”, barcaioli che trasportavano persone e merci sfruttando i punti più agevoli del Reno. Proprio per questo motivo, la località di Vizzano, prima della costruzione del ponte, era chiamata “Barca”. La prima struttura, progettata e costruita in cemento armato su dei piloni, non resse ad una eccezionale piena nel 1928. Nel 1930 venne quindi inaugurata la seconda versione del ponte, su piloni che poggiavano sulla terraferma ma con funi che lo facevano stare sospeso sull’acqua. Durante la guerra, nell’aprile del 1943, i Tedeschi in ritirata fecero poi saltare il ponte con cariche di tritolo per ritardare l’avanzata degli alleati che entrarono a Bologna solo 4 giorni dopo. Attualmente il Ponte di Vizzano, ristrutturato nel 1994, si può attraversare anche in auto ma non ha perso la sua immagine di angusto passaggio “un po’ traballante” sul fiume.
Voce: Francesca Biagi, Ufficio Turistico Comune Sasso Marconi La Ghiacciaia (detta anche “conserva”) si trova nel Giardino Grimaldi, in pieno centro a Sasso Marconi. Documentata in una mappa del 1697, con a fianco le botteghe del “pizzicarolo” (drogheria e larderia) e del macellaio, la sua principale funzione consisteva nel mantenere il freddo per la conservazione degli alimenti: carni, insaccati, formaggi, burro e altri latticini. La struttura della ghiacciaia, a cui si accede attraverso una piccola porta, è composta da una profonda cavità scavata nel terreno, a forma di tronco di cono rovesciato, ricoperta da una cupola semisferica. L’interno, a sezione circolare, è interamente rivestito con pareti in sasso molto spesse, cementate tra loro, che permettono il mantenimento della temperatura. La parte superiore, invece, è rivestita di terriccio sul quale cresce una fitta vegetazione con lo scopo di impedire il riscaldamento. Durante l’inverno, i contadini raccoglievano la neve dai campi, la trasportavano e, dopo averla versata all’interno della ghiacciaia, la pressavano in modo da formare un blocco compatto di ghiaccio che mantenesse l’ambiente freddo per tutto l’anno. L’acqua, prodotta dallo scioglimento della neve, veniva raccolta sul fondo piatto della cavità e attraverso una griglia di metallo veniva dispersa e assorbita nel terreno circostante.
Voce: Francesca Biagi, Ufficio Turistico Comune Sasso Marconi Il Sasso di Glosina, come viene chiamato nei documenti medioevali, è un luogo carico di significati, storici e simbolici, ed ha sempre avuto attorno a sé un alone di magia e di mistero. Tra le credenze più antiche spicca quella che vuole la Rupe animata dal Diavolo, da cui il nome del limitrofo Rio Gemese, che è detto Fosso del Diavolo. Addirittura Salimbene, pellegrino francescano del XIII secolo, vi ambientò la narrazione di una delle sue “Cronache”, in cui il diavolo uccise due prossimi novizi, spingendone uno nel fiume e buttando una pietra in testa all’altro. Ma la Rupe ha una storia che inizia nel 1283, anno in cui fu costruita una chiesa rupestre dedicata alla Vergine Maria, fondata da Giovanni da Panico, con a fianco un ospitale per accogliere i pellegrini. L’immagine di terracotta della Madonna con il Bambino divenne quindi attrazione per molti devoti, con un’affluenza di fedeli paragonabile al Santuario di San Luca di Bologna. Nel 1477, Nicolò Sanuti, Conte della Porretta, fece scavare una nuova grotta molto più grande nella quale fu trasferito il santuario. Nel gennaio 1787, un enorme blocco di roccia si staccò dal soffitto, per fortuna senza conseguenze. Per ragioni di sicurezza il Santuario e la venerata immagine della Madonna furono trasferite nel Borgo di Sasso prima in un oratorio e poi nella chiesa costruita tra il 1802 e il 1831 nella piazza centrale, distrutta nel 1945 da un bombardamento durante la seconda guerra mondiale, insieme alla quattrocentesca immagine sacra. La Rupe venne anche sfruttata per l’estrazione di arenaria, utilizzata nel bolognese per l’edilizia: ampie cavità sono ancora oggi visibili, così come i solchi degli scalpelli e alcuni graffiti incisi dagli operai. Un calo della domanda di arenaria, però, tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento, ridusse la popolazione che vi lavorava ad uno stato di miseria, costringendo la gente più povera a trasformare le cavità in abitazioni. Ma, durante la notte di San Giovanni, 24 giugno 1892, un’enorme falda di roccia franò, uccidendo 14 persone e ferendone altre 10.
Voce: Francesca Biagi, Ufficio Turistico Comune Sasso Marconi Questo acquedotto romano ha un primato rispetto agli altri: dopo oltre 2000 anni è forse l’unico ancora perfettamente in funzione e continua a portare l’acqua del fiume Setta alle case dei bolognesi per circa un quinto del loro fabbisogno. Giudicate infatti insufficienti le acque dell’Aposa (unico fiume che attraversa il centro di Bologna) e troppo calcaree quelle del Reno, gli ingegneri idraulici romani decisero che il torrente Setta, con acque pulite, dolci e chiare, facesse al caso loro. Progettarono così, circa intorno al 15 a.C., un tunnel interamente scavato nelle colline di roccia di arenaria e argilla, il cui imbocco si trova lungo la riva destra del Setta, poco prima della confluenza col Reno. Lungo quasi 19 km, la sua realizzazione occupò 20 squadre, ciascuna con decine di uomini che lavoravano a turni, probabilmente per una durata di 12 anni. L’acquedotto venne costruito per tronchi. Ogni tratto veniva scavato da due squadre che entravano dallo stesso pozzo e, dandosi le spalle, avanzavano in direzione opposta sino all’incontro con una squadra entrata più a monte o più a valle, circa a distanza di 80 m. Rimase in funzione fino al IV secolo d.C., quando le invasioni dei barbari portarono alla caduta dell’impero Romano in Occidente. Inattivo per quindici secoli, venne poi ripristinato nel 1883.